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Alessandra Mammì

Vivevo all’Esquilino da piccola. Il colle della Domus Aurea che confina con il Colosseo, i Fori, il Palatino. Allora quell’area era un vero parco archeologico:  per gran parte un giardino senza cancelli, aperto a tutti dove si andava per giocare, raccogliere pinoli e nascondersi tra le rovine che nella fantasia dell’infanzia diventano le nostre case o le botteghe dove si fingeva di vendere e comprare sassi e lumachine.

Il lato opposto invece confinava con la Stazione Termini, e oltre la stazione con il quartiere di San Lorenzo che era stato bombardato dalle forze alleate nel luglio del 1943, poco prima della liberazione. Le 4.000 bombe sganciate provocarono 3.000 morti, 11.000 feriti e cumuli di macerie tra San Lorenzo e i quartieri limitrofi.

Anche l’Esquilino era stato danneggiato. Le bombe cadute qua e là sugli edifici avevano lasciato vuoti, mura spezzate, intonaci sfregiati da proiettili che ancora negli anni Sessanta non erano stati riparati.

Li ricordo come denti cariati, mostri, fantasmi spaventevoli che sbucavano all’improvviso tra i composti palazzi del quartiere Umbertino, dal gusto franco-piemontese costruiti nella utopica solidità borghese da età giolittiana. 

Dunque ho avuto la fortuna di crescere tra gli antichi resti della Roma imperiale pieni di luce, ombra dei pini, muschi, colori dolci che fondevano il bianco latte del travertino e i rombi rossi delle mura reticolate. Raggiungevo a piedi quell’incanto che giustificava tutti i possibili viaggi da Grand Tour e che per me era un normale giardinetto dei giochi. 

Ma le rovine della guerra invece, grigie e sporche, facevano paura. Uno degli edifici crollati per una buona metà era sede dell’Ufficio d’Igiene. Il posto dove venivamo vaccinati per malanni vari, il vaiolo ad esempio. E lì, l’immagine delle cicatrici del vaiolo che vedevo sul braccio degli adulti si sovrapponevano alle lacerazioni del muro, alle pareti crollate, ai buchi negli intonaci e poche cose mi sembravano allora così vicine all’orrore quanto quel dimezzato palazzo che nascondeva terribili e sfiguranti malattie e ricordava tutti i feroci racconti della guerra che chissà perché i vecchi amavano così tanto raccontare ai bambini.

Anche da adulta ho sempre avvertito una certa diffidenza nel passare accanto a quel rudere di Via Merulana, sebbene capitasse di rado perché da tempo mi ero trasferita altrove. Ma quella mutilazione, ormai consolidata e otturata nel cemento, mi faceva inevitabilmente tornare alla mente tutti i brutti pensieri.

Ora non esiste più. Completamente restaurato nel 2018 l’ex Ufficio d’Igiene di via Merulana 121, è diventato sede della fondazione privata Elena e Claudio Cerasi, centro di cultura e d’arte che conserva in collezione permanente decine di opere (molte bellissime) degli anni Venti e Trenta. Donghi, Francalancia, Capogrossi ancora figurativo… Dipinti anteguerra con ritratti di composte signore, eleganti scene balneari, metafisiche immagini di città perfette, di donne e uomini perfetti.

E mentre la radicale ricostruzione della Fondazione cancella dopo 75 anni gli ultimi brandelli di distruzione lasciati conflitto mondiale, anche le rovine sontuose della Roma archeologica sono in qualche modo state spazzate via dalla vita quotidiana del quartiere. Cancelli, reti, comitive, tour operator, finti gladiatori, banchetti di souvenirs, file di torpedoni turistici che erigono muri a fianco della via sacra e il flusso ininterrotto di una  folla multirazziale vomitato ad ogni istante dall’uscita della metropolitana. 

O almeno così era, fino ai giorni della pandemia. Questi giorni in cui mi si chiede di riflettere sulla parola ROVINE. E nell’ambiguità che questo termine mi suscita arrivano dalla memoria immagini, e pensieri impressi nel mio tempo, come un susseguirsi di sensazioni contraddittorie che può ben cominciare dalla foto che segue.

Milano 1946. Lucio Fontana visita quel che resta del suo studio

La trovo una foto piena di speranza e di ottimismo. Non mi ha mai fatto pensare a cosa abbiamo perso, a quel che c’era nello studio ma piuttosto a quello che sta per esserci nella mente di uno dei grandi artisti del Novecento che all’epoca di questa foto si definiva ancora pittore-scultore-ceramista. Fontana nel 1946 aveva appena redatto a Buenos Aires il “Manifesto Blanco “e scritto nell’incipit un’invocazione “A tutti gli uomini di scienza del mondo, i quali sanno che l’arte è una necessità vitale della specie”. E quel vitale è tutto lì, in questa foto in cui Fontana non vede solo la distruzione ma l’apertura di uno spazio quello stesso spazio che di lì a poco avrebbe cercato di penetrare con i Buchi, i Concetti Spaziali le Attese e infine i Tagli. “Io buco la tela e da là passa l’infinito, apro una dimensione nuova che è quella dello spazio infinito. CONTA L’IDEA, BASTA UN TAGLIO” Taglio che in questa immagine lui sembra misurare con il suo stesso corpo, e chissà forse già prefigurare.

P.S. Nella Biennale di Venezia del 2013 Alfredo Jaar espone questa fotografia in forma di Light Box all’ingresso del padiglione del Cile come simbolo della resistenza del pensiero alle distruzioni della guerra.

L’Angelus Novus di Paul Klee e di Walter Benjamin

Se c’è un testo che riscatta tutte le rovine e tutte le macerie riconsegnandole nelle nostre mani per dare un nuovo senso ai loro frammenti questo è l’Angelus Novus di Walter Benjamin. Lo ha scritto nel 1940 poco prima di suicidarsi ed è d’obbligo qui rileggerne le righe.

C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, e le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine cresce davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.  

Il Grand Tour

Da viaggio che dal secolo XVIII diventa necessario per educazione e formazione delle classi dirigenti a meta del turismo di massa. La motivazione che porta milioni di persone al Palatino, al Colosseo non è cambiata e si nutre del letterario insegnamento che senza il confronto diretto con l’antichità l’esperienza della vita non sia completa. Non c’è visita virtuale che tenga perché il confronto con l’assoluto della Storia e quanto resta del suo passaggio sulla terra deve essere fisico e ravvicinato. 

Le idee che le rovine suscitano in me sono grandiose. Tutto si annienta, tutto perisce, tutto passa. Soltanto il mondo resta. Soltanto il tempo dura […]. Una corrente irresistibile trascina le nazioni le une sulle altre in fondo ad un abisso comune; io solo pretendo arrestarmi sul ciglio e fendere il flusso che scorre intorno a me!” (Denis Diderot). 

L’opera dell’uomo che sfida l’immortalità del tempo e l’eternità della natura promette di regalare un’emozione sublime anche se si è stanchi, sudati, irreggimentati in un gregge umano e con unico conforto di bottiglietta di plastica.

La Germania di Hans Haacke

Nei miei ricordi la “dis/installazione” che Haacke mise in scena alla Biennale del 1993 nel padiglione tedesco è la migliore traduzione visiva del termine “Rovina”. Partendo dalla storia (la costruzione del padiglione in stile monumentale voluta dallo stesso Hitler nel 1938 e la foto del Führer al tempo dell’incontro a Venezia con Mussolini del 1934) Haacke opera all’interno dell’edificio in un vero corpo a corpo. Fa a pezzi il pavimento trasformandolo in cumulo di macerie che ci costringe ad attraversare con passi incerti; iscrive a lettere cubitali con tragica e ridicola retorica la parola GERMANIA sul muro interno in chiara contraddizione con la solennità dell’esterno e soprattutto con gesto radicale trasforma per la prima volta un padiglione nazionale da contenitore a contenuto. Opera di per sé, la frammentata Germania di Haacke, è metafora della storia del suo paese a pochi anni dalla riunificazione e contro l’entusiasmo da caduta del muro, s’impone come memento delle rovine della guerra, come un simbolo del peso che ogni tedesco – sia pure non colpevole per gli orrori dei padri – porta sulle sue spalle e come l’angelo di Benjamin “Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi”.

Alessandra Mammì

[Journalist • Art Historian • Curator]

TI DO LA MIA PAROLA… ROVINE

[Ruins - 2020]