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Elisa Brilli

Il quaderno giallo di carta leggera è tutto umido. Ci sono sulla copertina alcune parole in cirillico che ora galleggiano su tante piegoline. Sembra un modesto quaderno per bambini, sul retro c’è disegnato l’alfabeto russo. Lo guardo: le lettere mi sembrano tanti piccoli ghirigori, dei disegni graziosi ma senza senso. Me l’ha portato S. dalla transiberiana, lo uso in questi giorni per appuntarmi alcuni pensieri, ma stanotte l’ho lasciato fuori dalla tenda, durante il temporale, sotto una pila di libri. 

Il mare ribolle sotto una pioggia incessante. L’orizzonte sfuma nel grigio, è tutto un infinito flusso d’acqua che oscilla fra il celeste e il grigio. Passa ora un gommone con alcuni sommozzatori rompendo l’uniforme pianura del mare. In questi giorni di pigro fluttuare marino ricevo delle inaspettate risposte o meglio, non proprio delle risposte, direi piuttosto degli stimoli appassionanti, delle chiavi per aprire delle porte- su una questione su cui m’interroga da un po’, ovvero la visione teatrale che “cambia il mondo”. Uno sguardo attivo, capace di produrre rivoluzioni. E ancora, come innescarlo negli altri (nei più giovani magari, negli adolescenti). Dico inaspettate perché mi provengono dal mondo semiotico medievale. E come sempre quando studio, tutto questo mi dà una febbrile eccitazione e il cervello inizia a saltare di qua e di là fra decine di collegamenti. Per l’appunto scopro che D., nuova amica e vicina di tenda, è laureata in latino medievale, così la tartasso di domande sui quattro sensi della Scrittura e su altre questioni filosofiche tipiche da ombrellone.

La parola che ha innescato il mio girovagare è stato un vocabolo piuttosto curioso, duttile e aereo, ricco di possibilità, letteralmente dinamico: metànoia, traslitterazione del greco μετάνοια (der. di μετανοέω «cambiar parere», comp. di μετα- «meta-» e νοέω «intendere, pensare») e la sua traduzione latina conversio, conversione (una traduzione forse impropria? Ma infondo non così tanto). 

È Chiara Frugoni che ne parla in un passo di “Storia di Francesco e Chiara” (uno dei libri ormai zuppi che ora sono ad asciugare al sole): « Nella versione greca dell’Antico Testamento o dei Settanta, così come nei Vangeli, giunti a noi in greco, l’atteggiamento richiesto all’uomo per ottenere il perdono dei propri peccati è indicato con la parola metànoia, che la Vulgata traduce in latino sia con paenitentia che conversio: tre termini dunque con lo stesso significato. In greco metànoia significa “la mutazione di una persuasione, di una attitudine o di un disegno abbracciato anteriormente o anche il dispiacere per il proprio comportamento precedente. Per questo Giovanni Battista ordinò che i neo-battezzati facessero “frutti degni della penitenza” cioè “coerenti azioni di cambiamento”, frutti che il profeta esemplificò in un diverso modo di comportarsi”. 

La metanoia -e direi per similitudine anche la conversione- dunque possiede un potere assai forte, perché prevede un cambiamento radicale, una mutazione direi genetica, un cambio di rotta irreversibile. Un potere che a pensarci dà i brividi. Prevede un’azione non tanto e non solo su se stessi ma sul mondo che ci circonda. Saulo che cade da cavallo, accecato: lo squarcio di luce fra le nubi e l’impennata del cavallo di Guido Reni. Un’opera sonora che annuncia con uno schianto un uomo che davvero cambierà il suo destino e quello dell’intera cristianità. Oppure, Caravaggio, in cui all’opposto non c’è alcun segno divino evidente, ma da un orrido buio lampeggia il corpo immenso e mistico del cavallo. Questo può far cambiare tutto: la visione. Una visione che per eccesso di luce e conoscenza, addirittura acceca. La questione strettamente religiosa non m’importa molto. M’interessa capire altro: il profumo semantico, la brezza che si diffonde da questo concetto.

Ma come accade, come si produce questa metanoia? Igor Sibaldi aggiunge un’accezione di nuovo visiva a questa parola: metanoia come “accorgersi”. “Far giungere la tua mente più in là”. Metanoia, dunque, come capacità di aprirsi alla visione di qualcosa forse all’inizio piccolo – un dettaglio? qualcosa di perturbante? L’unheimlich freudiano? – che all’improvviso diviene così importante da provocare in noi una tempesta interiore. 

Il nostro sguardo cambia, si amplia, raggiunge una nuova profondità, una maturità, che a quel punto può davvero produrre anche un cambiamento. Un processo che probabilmente può essere innescato come no. A questo proposito ecco uno stimolo letterario che le coincidenze mi hanno portato sotto gli occhi. Un passaggio di Daniel Deronda di George Eliot che recita così: “ È fra i segreti di quell’alterazione dell’equilibrio mentale che va opportunamente sotto il nome di conversione, che a molti il cielo e la terra non riservino alcuna rivelazione fino a quando una certa personalità non intervenga a esercitare la sua peculiare influenza sulla loro, riducendoli alla ricettività”. 

Di nuovo, scopro che fra i libri sotto la pioggia ce n’è un terzo che mi parla chiaramente di “conversione dello sguardo”: Didi-Huberman in Beato Angelico. Figure del Dissimile dopo una funambolica avventura attraverso la foresta delle foreste dell’universo simbolico medievale giunge fino al “frutto degno della penitenza” di Angelico, ovvero la pittura. In particolare scopro che è proprio un dettaglio ad avere il potere su cui m’interrogo: sia nell’Annunciazione del Prado che in quella di San Giovanni V.no che di Cortona, non possiamo non notare le straordinarie macchie di colore puro che si mischiano sul pavimento della loggia, in un capogiro policromatico. Su questa mistica (o anche lisergica) superficie galleggia l’Arcangelo di fronte a Maria. Un vero enigma, una storia di spettri quasi (che vale la pena approfondire su questo testo straordinario). L’opera di Angelico non è altro che un’omelia pittorica, una meditazione visiva, in grado di provocare una conversione in chi guarda: «la nostra ipotesi è dunque che quelle zone multicolori nella pittura del B.A. fungano più da operatori di una conversione dello sguardo che da segni iconici». Una favolosa iperbole: è il colore ad ampliare lo stato della ricettività e dunque a permettere il passaggio ad una nuova vita. 

Purtroppo qui mi devo fermare. Mi rendo conto che questi appunti sono sparsi e incompleti ma mi riprometto di tornarci sopra. Dunque per riportare il mio filo al teatro, che di fatto sottende a questa mia serie di appunti su una visione che “cambia il mondo” mi voglio riferire a Milo Rau, regista svizzero, che nel suo Manifesto di Gand (redatto in occasione dell’inizio della sua direzione del NTGent, teatro nazionale della città di Gand) scrive: “Non si tratta più di dipingere il mondo. Si tratta di cambiarlo. […]”.

 

Elisa Brilli

 

Grazie a Diletta, Maja, Giovanni
Elisa Brilli

[Communication • Theater Organization]

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[Vision - 2020]