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Sara Giovine

La storia e la fortuna della parola sorellanza sono, si sa, strettamente intrecciate all’uso che ne hanno fatto i movimenti femministi nel corso degli anni Settanta, quando il termine è stato assunto a vera e propria parola chiave delle loro rivendicazioni per l’uguaglianza e la parità dei diritti: sorellanza è infatti per le femministe quel sentimento di reciproca solidarietà che si viene a creare tra donne accomunate dalle medesime condizioni, aspirazioni ed esperienze, che si supportano a vicenda nella lotta politica e sociale (e non solo). Le prime a impiegare la parola con tale significato sono le femministe americane, che nel 1968 coniano il motto “Sisterhood is powerful” (poi adottato anche come titolo di una celebre raccolta di scritti femministi, pubblicato nel 1970 a cura di Robin Morgan), ampliando così le possibili accezioni semantiche di un termine attestato in verità già nell’inglese antico, nel significato letterale di ‘legame naturale e affettivo tra sorelle’. Il concetto è quindi ripreso di lì a poco dai movimenti femministi di tutta Europa, che lo associano però a parole di cui le rispettive lingue già dispongono o che vengono formate a partire da basi lessicali proprie: è il caso per esempio del francese sororité e dello spagnolo sororidad (che riprendono il latino medievale sororitas, a sua volta dalla forma del latino classico soror ‘sorella’), o appunto dell’italiano sorellanza (che è invece un derivato di sorella, formato sul modello di fratellanza).

La nostra parola, il cui significato proprio e originario è, come in inglese, quello di ‘vincolo naturale e affettivo tra sorelle’, è quindi attestata in italiano ben prima degli anni Settanta: le prime occorrenze del termine risalgono infatti già alla metà dell’Ottocento, quando se ne rinvengono esempi d’uso, tra gli altri, nella recensione di una traduzione in friulano dell’Eneide, a indicare in senso figurato il legame di parentale tra le divinità personificate della Verità e della Favola, e in uno scritto del 1847 di Vincenzo Gioberti, che con sorellanza si riferisce invece al rapporto di complicità che viene spesso a instaurarsi tra educande in convento:

Quando il ridicolo entra in questa specie di comunanza col serio, i giuochi e gli scherzi pervengono ad ottenere quegli stessi vantaggi che la Favola additava alla Verità esser per nascer dalla loro sorellanza […]. ([rec. a] L’Eneide di Virgilio travestita da Gio. Giuseppe Busiz, ridotta a lezione pura friulana da Gio. Battista nobile Dalla Porta […], «Biblioteca italiana o sia Giornale di letteratura, scienze ed arti», 64, 1831, p. 212).

In Genova le educande vi formano una spezie di sorellanza secreta, partita a vari gradi di gerarchia, come i cori celesti […]. (Vincenzo Gioberti, Il gesuita moderno, Losanna, Bonamici e compagni, 1847, p. 383).

A partire dal significato originario si sarebbero poi ben presto sviluppate, per estensione, ulteriori accezioni semantiche del termine, per lo più a indicare il reciproco legame tra persone o entità (di genere femminile) che abbiano la stessa origine o presentino affinità di varia natura. Sorellanza può essere definito per esempio, con un impiego diffuso già dalla fine dell’Ottocento, ciò che lega due lingue o due paesi (Benedetto Croce, in uno dei suoi scritti di etica politica, parla per esempio di “sorellanza latina” tra Francia e Italia), o ciò che accomuna due opere letterarie (un legame di sorellanza è esplicitamente riconosciuto da Pascoli tra due delle sue raccolte più celebri, Myricae e i Canti di Castelvecchio), o più in generale due oggetti di foggia simile (nel suo vocabolario del milanese di fine Ottocento, Francesco Cherubini parla per esempio di “sorellanza di forme” tra la pampàra, un bastoncino decorato con dolciumi e piccoli giochi, proprio di alcune feste popolari lombarde, e il maio, un ramo fiorito arricchito con dolci e piccoli oggetti, trasportato dai giovani durante le feste del maggio nelle campagne toscane). 

Tali esempi ci documentano quindi un precoce impiego della parola sorellanza non solo nel suo significato proprio, ma anche in quello esteso e figurato di ‘legame tra cose simili’, con il quale la voce è oggi del resto più comunemente utilizzata: le sue attestazioni d’uso tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento sono tuttavia piuttosto sporadiche e per circa un secolo la circolazione della parola rimane alquanto limitata e circoscritta, anche in ragione della maggiore diffusione del corrispettivo ‘maschile’ fratellanza, di più antica attestazione in italiano e da sempre impiegato con valore neutro collettivo anche per referenti di genere femminile.

La nostra voce resta di conseguenza a lungo assente dai dizionari, almeno fino al 1950, quando Bruno Migliorini, illustre storico della lingua e presidente dell’Accademia della Crusca tra il 1949 e il 1963, registra per la prima volta sorellanza (insieme alle varianti sorellevolezza e sororanza, oggi cadute in disuso) nell’Appendice al Dizionario moderno di Alfredo Panzini, che non a caso si distingue da altri vocabolari coevi per l’attenzione riservata alle parole nuove o di più recente affermazione nella nostra lingua. Lo stesso Migliorini, qualche anno più tardi, nel 1955, rispondendo alla lettera di un professore universitario di Lingua e letteratura italiana a New York che si era rivolto al servizio di consulenza linguistica dell’Accademia della Crusca, si dichiara favorevole all’impiego di sorellanza quale corrispettivo femminile di fratellanza, ritenendolo un uso del tutto legittimo e corretto.

Nel corso dei successivi decenni la cultura femminista contribuisce poi, come si è detto, a una certa fortuna del termine e a una sua discreta diffusione anche nella lingua corrente, mentre la maggiore attenzione riservata in tempi recenti alle questioni di genere e all’uso di un linguaggio inclusivo e non sessista, che tenga conto delle specificità maschili e femminili, ha fatto sì che anche diverse linguiste si siano espresse a favore non solo dell’uso dei cosiddetti femminili di professione (i vari avvocata, ingegnera, sindaca, ecc., del tutto corretti secondo le regole morfologiche della grammatica italiana), ma anche di forme come sorellanza o maternità (nel significato di ‘appartenenza di un’opera o di un pensiero a una persona’) nel caso di referenti di genere femminile. 

La strada da fare in tal senso è tuttavia ancora molta e anche la nostra parola, pur accolta dalla maggior parte dei dizionari contemporanei, continua a essere minoritaria nell’uso rispetto alla concorrente fratellanza: non possiamo quindi che augurarci che col tempo, insieme a una più salda solidarietà tra donne, si sviluppi anche una maggiore consapevolezza della ricchezza lessicale della nostra lingua, che ci offre la possibilità di rispettare, anche sul piano linguistico, le specifiche differenze di genere.

Sara Giovine

[Post Doc Researcher in Linguistics]

TI DO LA MIA PAROLA… SORELLANZA

[Sisterhood, 2020]