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Costanza Meli

Ho immaginato questo luogo come uno spazio attraversabile, così come i pensieri, le immagini e le parole che lo compongono. Una piattaforma di idee che stimola la mia curiosità e mi indica una possibilità: varcare la soglia dei propri contenuti, concedersi un passaggio nel territorio altrui, invitare l’altro ad esplorare il nostro, per disegnare insieme itinerari nuovi o ripercorrere memorie comuni.
Attraversare è la parola che ho scelto. Una parola che ispira la mia ricerca e le mie azioni e che intendo sia osservare nei suoi significati, sia praticare, creando connessioni. Entrare e uscire da altri testi, pagine e contributi mi diverte, ma non solo. Credo che possa illuminare una piccola parte di quella rete che vive tra i nostri discorsi e le nostre esperienze e che ci fa essere sempre qui e altrove allo stesso tempo, che prescinde da noi, anche se ne siamo gli autori e che, infondo, è il senso della storia.
Senza attraversamento non c’è relazione. Il “noi”, consapevolezza reciproca (Moscovici) e dialogo dell’esistenza (Nancy), realtà che viviamo ogni giorno quando comunichiamo o apprendiamo, consiste, prima di tutto, in un’esperienza di attraversamento.
Nell’arte, la dimensione poetica che le immagini percorrono costituisce un ponte tra l’idea e la sua percezione emotiva da parte del pubblico. Andiamo dunque alla ricerca di possibili cartografie di questo “spazio socchiuso”, attraversando porte e inventando ponti.

 

Attraversare:

il confine

Mimmo Paladino, Porta di Lampedusa, Porta d’Europa, Lampedusa 2008

 

Il confine è presente nei nostri processi quotidiani di significazione. Lo sperimentiamo ogni giorno nelle nostre città, nell’incontro con l’altro, nell’esperienza che facciamo del limite e del suo attraversamento. L’idea di “semiosfera” elaborata dal grande semiologo Jurij Michajlovič Lotman illumina il senso profondo del confine come luogo della trasformazione, del cambiamento. La semiosfera è un’entità semiotica autosufficiente, chiusa e organizzata, ma per esistere ha bisogno di un ambiente esterno non organizzato che permetta al proprio confine di sussistere: «quando questo manca, se lo crea, come testimonia l’opposizione tradizionale tra civiltà e barbarie, tra noi e loro, tra amici e nemici» (Lotman, 1985).
La pratica dell’esistere sarebbe connessa senza scampo all’atto del recintare, del circoscrivere. Lotman spiega però qualcosa di importante rispetto alla vera essenza del confine: esso è al tempo stesso pellicola e filtro. Viene posto per conferire univocità all’ambiente semiotico, ma è comunque permeabile alla semiosi esterna, permettendo, di fatto, l’evolversi delle culture.
È proprio lì, nel margine, o in quello che come tale viene vissuto, che si verificano gli innesti e le ibridazioni senza cui non sarebbe possibile nessuna traduzione.
La membrana, che nel nostro paesaggio quotidiano è rappresentata dai muri che compongono la struttura urbana, che contengono il nostro abitare o che, a livello più macroscopico e geopolitico, sono innalzati per difendere l’integrità delle nazioni, dall’eterno migrare dei popoli e delle culture.
Nella città contemporanea (infinita, aperta, contraddittoria), questa ibridazione non riguarda soltanto le periferie, le zone di margine, ma tutte quelle aree in cui le anomalie e le eccezioni vengono assunte con più facilità per mancanza di una struttura forte che le contrasti. Dinamiche che si realizzano gradualmente, nell’interstizio, ma anche nel ventre della sfera urbana. Dentro il tessuto, che si credeva uniforme, si crea una doppia tensione tra opposte tendenze che convivono determinando, nel loro scarto, lo spazio per lo sviluppo di processi dinamici.
Non a caso, nel mondo dell’arte il tema del confine costituisce da sempre un topos fondamentale. L’artista supera per definizione i confini e le soglie del consueto e dell’immaginabile, per rivoluzionare la cultura in cui vive, istituendo avanguardie, squarciando il velo della significazione per lavorare sull’indicibile, sulle zone dell’interdizione, sui vuoti legislativi, sul non visto e, spesso, sull’invisibile.

 

 

La soglia tra visibile e invisibile

Federico Triulzi, Invisibile, 2020

 

Christopher R. Hallpike ha rilevato che nel pensiero primitivo lo spazio è stato ordinato secondo sottili principi topologici, il cui motivo ispiratore è da ricercare nelle profondità affettive e simboliche di «un ordine cosmico, nel quale quello sociale del gruppo si rispecchia con trepidazione» (Hallpike, 1984). Questo nucleo più vitale dell’esperienza si rivela nella quotidianità di una relazione affettiva e immaginativa con il mondo. Eugenio Turri indica un’altra relazione: quella tra “visibile” e “non visibile” nel saggio Il paesaggio e il silenzio. Non sono visibili le mappe mentali, così come i confini tra gli spazi vissuti, eppure orientano la nostra esperienza, consentendoci di attribuire posizioni e valori al nostro intorno. È dalla capacità delle comunità di valorizzare il non visibile, integrandolo nella cartografia del proprio immaginario, che dipende la costruzione culturale del paesaggio. Ad esempio, le dimensioni del “locale” e del “globale” assumono un senso in base a percezioni non sempre oggettive, ma connesse alla nostra capacità di instaurare un rapporto con ciò che non si vede e di sentire ciò che non è “in presenza”. Anche ciò che è distante o assente viene integrato in una totalità che deve essere compresa. In questo spazio che si riempie di presenza e di esperienza, il non visibile è condizione necessaria per spazializzare, per fare da contrappunto a ciò che si mostra: «Vediamo il paesaggio che desideriamo vedere, che non disturba la nostra idea di paesaggio. Quindi c’è tutta una serie di cose che restano invisibili, anche se fanno parte concretamente, organicamente del territorio di cui cerchiamo il riflesso. Ma i segni visibili o invisibili nel paesaggio che importano per gli abitanti di una certa zona sono sempre celati nella mente degli abitanti, nel loro sentimento dello spazio, del tempo, della storia» (Turri, 2004).

Segni celati nella mente degli abitanti, segni che rimandano al vissuto, alle fantasie, alle componenti storiche e memoriali, ad una dimensione interiore, o esperita. Questo paesaggio si costituisce come luogo dell’intersoggettività, proprio a partire da ciò che non si vede, ma è rappresentabile, tramite simboli condivisi, o al di là di essi, come nei muri delle città che l’archivio fotografico di Federico Triulzi illumina in modo sottile. I muri che ci racconta questo lavoro rendono visibile qualcosa che per stessa definizione (della frase o del disegno che vi leggiamo) non lo è. In fondo nella sostanza stessa del muro, sembrano dirci queste immagini, è presente la doppia natura di limite e soglia, di recinto e di pagina. In esso convivono l’esclusione e l’espressione. Ogni contenuto che vi si manifesta non fa altro che dire la sua possibilità e impossibilità, in un ossimoro. Nel paesaggio urbano si dispiega l’invisibile proprio mentre si mostra. Di quanti tipi di invisibilità ci parla questo linguaggio silente e urlato, questa città che Federico attraversa cogliendone i cambiamenti, le più piccole espressioni, le sue immagini dette e quelle non volute? Dell’invisibilità della fede, che si esprime nelle richieste degli ex voto, di quella filosofica di un messaggio che si costruisce nelle associazioni tra forme e messaggi di istanti diversi, di quella sociale, della protesta, del libero pensiero che si nasconde mentre si rivela. L’invisibilità cui si riferiscono frasi, poesie, parole o l’invisibilità delle persone che hanno lasciato quel segno; l’invisibilità di uno sguardo che vede entrambe e disegna percorsi nuovi attraversando la soglia semantica dei loro rimandi. Queste immagini percorrono la storia di una sedimentazione urbana in cui ciò che non esiste si palesa: l’invisibile visibile (espresso), che al tempo stesso, citandosi, si contraddice. il paesaggio che ci mostra Federico è un territorio frammentato che non chiede di essere ricomposto per fare sistema, perché non c’è, se non nella notte della poesia involontaria e del gesto fortuito, nel vento che strappa, allontana e distrugge per ridisegnare nuove vicinanze, nella voce singola e nella singola preghiera. Tornando in ciascuno dei luoghi attraversati non ritroveremo quel paesaggio divenuto familiare, tutto ciò che è visibile è destinato a non esserlo agli occhi dell’altro o semplicemente il giorno dopo, agli occhi della storia. L’invisibile si muove e per questo permane al di là del nostro sguardo, segnando la mappa della nostra sensazione di città, tracciando le sembianze di ciò che è ad un tempo caso e ideologia.

 

 

Il limite tra identità e alterità

Tiziana Pers, Alterità, 2020

 

 

In un articolo pubblicato da Melting pot il 1 ottobre 2020, Francesco Ferri commenta le recenti discussioni che hanno impegnato l’opinione pubblica italiana in merito all’esame di lingua sostenuto dal calciatore uruguaiano Suarez, oggetto di inchiesta della procura di Perugia. Per diversi giorni, il caso ha riportato al centro del dibattito il tema della cittadinanza.

Ferri nota come le espressioni che contengono la parola cittadinanza abbiano sempre un’accezione positiva: “Si tratta di un’illusione prospettica. I tratti fondamentali di questo istituto hanno strutturalmente a che fare con l’esclusione, la selezione, l’arbitrio. È un potentissimo dispositivo che divide in due la società e favorisce il mantenimento delle ingiustizie locali e globali”.

Più avanti egli sostiene: “La cittadinanza è uno degli strumenti più efficaci per sezionare in due la società, costituire gerarchie e attribuire diritti e opportunità in maniera altamente differenziata. Esercita un enorme biopotere: blocca il movimento delle persone” e invita ad una riflessione che conduca la società a “disarticolare i confini della cittadinanza”.

Attraversare vuol dire connettere, tradurre, significare le differenze e costruire un dialogo tra la visione del singolo e quella dei molti. Gaston Bachelard definiva “lacerante” la logica oppositiva su cui si è costruito il pensiero occidentale e rimproverava ai filosofi di aver attribuito ad avverbi di luogo, come qui e , “poteri di determinazione ontologica”. Sarebbe stato più interessante occuparsi invece della “porta”, quella soglia che non separa il dentro dal fuori, che resta socchiusa per lasciare la curiosità allo sguardo e la libertà al gesto: «Quante rêveries allora si potrebbero analizzare solo menzionando la Porta! La porta è tutto un cosmo del socchiuso».

 

 

Il tempo

Michele Ciacciofera, Rovine, 2020

 

 

Nel lavoro di Michele Ciacciofera c’è la forza e la capacità evocativa delle rovine, come sede di una temporalità astratta e a noi tutti comune nella sua familiarità. Un paesaggio archeologico, un’archeologia presente, non un’apparizione dal nulla, ma la presenza che c’è sempre stata. Sono lavori fenomenologici, che parlano di un essercidelle cose, lì, a prescindere da noi e dalle nostre emozioni. Le cose sono. Il paesaggio non è nostro, ma si forma da solo. Una tavola da disegno che fa a meno di noi. Una luce della realtà, ma non reale, perché la realtà non può esistere nei nostri sensi, quindi non si mostra per noi. Siamo noi che la costruiamo, a partire da brevi frammenti e dalle rovine del mondo che conosciamo. Noi possiamo dirne nulla della realtà se non ciò che sappiamo dei nostri frammenti. Dunque è un incontro tra lo sforzo di dire e la coscienza di non vedere. Il senso delle rovine non sta nella verità della Storia, ma nella ricostruzione del dato assoluto tramite il dato sensibile. È impossibile, non si può fare. Allora lo facciamo lo stesso ed ecco che, come la musica, anche il mondo nasce da solo o torna ai nostri occhi, in qualche modo, da una qualche distanza perché noi possiamo riconoscerne le sembianze. Sappiamo che non vediamo la realtà: come non possiamo osservare il trauma, così non vedremo il paesaggio di un tempo che non ci appartiene. Sta lì ed è un sogno o un dejavu di pezzi, rovine, suoni, ricordi; è la nostra idea di spazio conosciuto, stratificato, ma è anche un paesaggio altro, che viene da altre distanze e che non potremo conoscere, ma possiamo attraversare.

 

 

Il bosco

Sara Basta, Radici, 2020

 

Da quando ho lasciato la città ho ripreso a camminare da sola. Camminare in montagna trasmette il senso più profondo dell’esperienza di se stessi. Estendere lo sguardo ad orizzonti più ampi, sentire il proprio corpo che a fatica afferma il proprio spazio nell’ordine naturale, respirare, fermarsi e riprendere il percorso, rende evidente tutto ciò che abbiamo scritto da secoli sull’ascesa come forma meditativa e sull’appartenere a un mondo cui siamo connessi anche quando ce ne separiamo. Quest’esperienza si fa sempre metafora di un processo personale di cambiamento, evoluzione, scelta, come scrive Valeria Pica a proposito della parola “introspezione”. Camminare da sola, dicevo. Eppure attraversare il bosco insegna qualcosa di più. Come dice il brano di Stefano Mancuso, che accompagna il lavoro di Sara Basta, il bosco è uno spazio di connessione: “Quel bosco è come se fosse un organismo unico. Cioè non costituito da tanti individui ma da una rete di piante che sono connesse le une con le altre. Possono essere direttamente connesse, attraverso le radici, a centinaia, letteralmente centinaia, di piante vicine”. Le radici quindi sono ciò che la tradizione del pensiero filosofico ha spesso obliato, considerando la dimensione meditativa del cammino come un’esperienza di solitudine e avvicinamento al sé o al divino. Non siamo soli, ci dice il bosco, ma le radici sono per lo più nascoste alla vista, non curanti del nostro passaggio, impegnate invece nella trasmissione della vita e dei saperi tramite un linguaggio che forse non decifriamo, ma conosciamo profondamente.

Attraversando il bosco non riscopro la mia identità rispetto all’alterità del mondo o del prima; affermo piuttosto il senso di un’identità che può esprimersi in ogni nuovo inizio perché parla la lingua condivisa che corre lungo le radici del mio e altrui sottosuolo.

Nelle immagini di Sara Basta c’è un doppio attraversamento, c’è quello che le radici compiono nella nostra vita individuale – attraversano il tempo, le relazioni, lo spazio dei sentimenti, la vita e la morte, i ricordi – ma c’è anche quello che oltrepassa la soglia del visibile, del rappresentabile, dell’arte. È il retro, il nodo, il garbuglio di fili che nessuno vede dietro il composto ricamo.

Il retro di un’immagine nel caso di Sara è l’addensarsi concreto delle trame che la compongono, sono intrecci che costruiscono, è disordine che sottende alla composizione di un significato possibile, quello della vita che nonpossiamo non tessere. Questo tessuto che drammaticamente l’artista ha ruotato, mostrandoci la carne e il dolore del sottosuolo, è uno squarcio che non può durare a lungo: non potendo osservare il trauma, non si può smettere di tessere disegni. Eppure è radice. Sara Basta ci ricorda che ci sono momenti nella vita in cui dobbiamo girare il telaio, scoprire le viscere per capire quanto questa rete sotterranea, vitale, sia l’invisibile del nostro visibile, sia lo strato profondo della nostra appartenenza al mondo. Il ricamo è dall’altra parte, la forma anche, allora volgiamo il foglio, attraversiamo la soglia, usciamo dal bosco e guardiamo con occhi nuovi.

Costanza Meli

[Art Historian • Curator]

TI DO LA MIA PAROLA… ATTRAVERSARE

[Attraversare - 2021]